santa Barbara in Agro
    Orari

    Sante Messe:
  • Domenica: ore 10.30
  • Sabato: ore 18.00
  • Mercoledi: ore 18.00 (sospesa nei mesi di Luglio ed Agosto)
  • Veglia di Natale: ore 23.30
  • Veglia di Pasqua: ore 23.00
  • S. Natale, 1 Gennaio e S. Pasqua: ore 11.00


SANTA BARBARA IN AGRO,
IL SANTUARIO DEL CROCIFISSO


"In merito alla chiese per le quali si dispone di scarso materiale conoscitivo, si auspica l'avvio di studi di carattere storico ed artistico al fine di delinearne le origini e ricostruirne le fasi di costruzione e trasformazione nel tempo, in collaborazione con gli Archivi Unificati e Biblioteca, il Museo Diocesano, la Commissione Diocesana per i Beni Culturali"
c. 277, Sinodo Diocesano Reatino 2005


di Ileana Tozzi

A chiunque, nelle ore brumose del giorno, di primo mattino o sul far della sera, capiti di viaggiare lungo i rettifili che s'intersecano nella piana reatina piatta ed ubertosa, dove l'asfalto si raggruma sull'antico tracciato ghiaioso dei viottoli interpoderali che collegavano un tempo le proprieta' dei principi Potenziani, estese a perdita d'occhio come i beni di Mazzaro', non e'certo estranea la percezione netta, consapevole di muoversi entro uno spazio che la natura aveva destinato a ben altra funzione: la forma di questo territorio dai confini rarefatti e', infatti, ancora quella che appartenne all'alveo dell'ancestrale lacus Velinus, strappato al suo destino di palude malsana dalla determinazione del console Manio Curio Dentato, piu' volte bonificato ancora nel corso dei secoli a venire dalla tenacia dei Cistercensi di San Matteo de Monticulo e di San Pastore, dalla perizia dei celebri ingegneri idraulici pontifici, i Maderno, i Sangallo, i Fontana impegnati nel progetto ambizioso della cava Paolina. Nella nebbia bianca e ovattata che sale compatta dalle zolle grasse dei campi, l'occhio del viaggiatore d'occasione vaga distratto fin quando non s'impiglia in un elemento inaspettato, che interrompe la monotonia piatta dei campi coltivati: e'un campanile, alto ed elegante nelle forme inusuali che ambiscono ad imitare la grandiosita' del barocco, quasi a nobilitare la semplicita' della vita agreste. Fu certo la sensibilita', forse la nostalgia che nutriva i sentimenti e il gusto del vescovo monsignor Carletti , ferrarese per nascita, a dettare le linee architettoniche di questa pieve dai caratteri tanto inusuali quanto suggestivi. Ma a chi conosce da vicino questo lembo di terra feconda piu' volte strappato al ristagno delle acque non sfugge la rilevanza storica, o piuttosto sociale, di questo campanile e della chiesa che gli sorge accanto: Santa Barbara in Agro, Santuario del Crocifisso, la cui costruzione centocinquant'anni or sono rappresento' il segno tangibile di un riscatto, l'affermazione di un'identita' popolare, contadina e cristiana, capace di mutare per sempre il nome dei luoghi. Da allora in poi, l'abitato che s'infittisce lungo il tracciato della strada provinciale con i casali dai muri scrostati, le torri piccionaie, le soggette fiorite di gerani disseminati fra il granturco di Pratolungo si riconosce nella comune matrice del toponimo di Chiesa Nuova.

GLI INSEDIAMENTI COLONICI DELLA PIANA REATINA

Fino al 1860, nel territorio dello Stato Pontificio la proprieta' fondiaria formata attraverso la secolare concentrazione di pii lasciti o mediante la capitalizzazione delle doti monastiche costitui' il nerbo di un'economia che contribui' a rafforzare il legame fra le Congregazioni religiose, i loro fattori ed i fittavoli mediante una pluralita' di contratti di locazione destinati spesso a perpetuarsi da una generazione all'altra di contadini. Questo tipo di proprieta', questo legame generazionale con la terra coltivata determino' l'affermazione di una tipologia dell'edilizia rurale che lascia traccia nelle fonti d'archivio, nelle mappe catastali, negli stessi fabbricati a tutt'oggi individuabili nelle campagne dell'Italia Centrale, un tempo parte integrante del Patrimonio di San Pietro.

La produzione agricola era e restava dunque il nerbo dell'economia locale, ma a cavaliere fra il XVIII ed il XIX secolo muto' sensibilmente l'assetto della proprieta' fondiaria A determinare il cambiamento intervennero la vendita delle proprieta' ecclesiastiche, dichiarate beni nazionali durante l'eta' napoleonica, e la vendita delle terre demaniali effettuata dal governo pontificio durante la prima e la seconda restaurazione. Il confronto fra il Catasto Piano del 1777, che costituisce il primo censimento generale della proprieta' fondiaria, e il Catasto Gregoriano, ordinato da Pio VII ed entrato in vigore nel 1835 sotto il pontificato di Gregorio XVI mette in evidenza l'entita' del cambiamento. Nel 1792, anno in cui a Rieti entra in vigore il Catasto Piano, su un territorio di 8.250 ettari risultano distribuite 540 terriere, per un estimo totale di 1.361.723 scudi. Di queste, ben 392, oltre il 70% del totale, hanno un'estensione inferiore ai 5 ettari e registrano valori piuttosto bassi.

La proprieta' del Capitolo della Cattedrale e'di oltre 800 ettari. Unitamente agli altri enti ecclesiastici - il Monte di Pieta', i conventi ed i monasteri - la Chiesa reatina nel complesso possiede all'incirca il 35% dei fondi di media estensione. La nobilta', rappresentata in particolare dai Vitelleschi, i Vecchiarelli, i Vincentini, i Crispolti, i Potenziani, i Vincenti Mareri, i Capelletti, supera il 40%. Ai borghesi rimane il controllo di poco piu' del 25% della proprieta' fondiaria. Quarant'anni piu' tardi, il territorio comunale risulta suddiviso fra 521 proprietari.

La ridistribuzione delle terre ha avuto come protagonista l'aristocrazia, a cui si unisce la borghesia in ascesa, a detrimento degli enti ecclesiastici e del demanio. Le proprieta' che rimangono appartenenti agli enti ecclesiastici, date in affitto a canoni molto modesti e ad enfiteusi, si concentrano del pari nelle mani del ceto medio urbano. In citta', perdura l'uso - condiviso dalle comunita' mendicanti maschili e femminili - di destinare ad orto lo spazio circoscritto dalle casupole della fitta rete urbana d'impianto medievale, fino ad estendere le colture sugli argini del fiume e delle cavatelle. Ne resta traccia eloquente nei toponimi di via della Verdura, nei pressi del porto piano, e di via degli Orti, nel borgo a meridione del fiume. Agli orti inclusi nel reticolo dell'impianto urbano vanno aggiunti i cento orti suburbani censiti dal Catasto Gregoriano, distribuiti soprattutto in localita' Porrara, a settentrione della duecentesca cinta muraria una delle cui porte - distrutta nella seconda meta' dell'Ottocento per dare accesso alla stazione ferroviaria - era appunto detta Leporaria. Oltre la fertile fascia orticola, procedendo dai margini verso la depressione della conca reatina, le terre meno esposte al rischio alluvionale erano divise in poderi mezzadrili di media estensione dotati di capanne, case coloniche o cascine. Le aree alluvionali nel cuore della piana erano suddivise in appezzamenti piu' estesi, i cui fittavoli vivevano in casali dotati di un maggior numero di ambienti polifunzionali, destinati ad essere abitati da grandi gruppi familiari - com'e'nel caso del complesso rurale di Settecamini, di proprieta' dei Blasetti, o a volte organizzati in vere e proprie corti circoscritte da abitazioni a schiera disposte intorno all'aia comune, presso una cappella votiva oppure, piu' semplicemente, presso la dimora padronale, come accade a Terria intorno al palazzo Vincenti Mareri, oggi castello Varano, ristrutturato negli anni '40 dell'Ottocento da Giuseppe Valadier per il conte Giacinto Vincenti Mareri, ultimo gonfaloniere al tempo del buongoverno pontificio.

LE CASE RURALI ISOLATE

Diffusa, come abbiamo gia' osservato, nella fascia esterna della piana, piu' prossima alla citta', la casa rurale isolata presenta caratteristiche diffuse nelle diverse regioni italiane, difficilmente riconducibili ad una tipologia particolare, ne' per quanto attiene ai materiali, ne' per quanto attiene a forme e funzioni: cio' che si puo' affermare con certezza al riguardo e'che il costruttore della casa rurale isolata ricorre essenzialmente ai materiali che l'ambiente naturale offre in loco e si preoccupa di adeguare l'edificio alle condizioni climatiche e morfologiche del terreno. Le dimore della piccola proprieta' contadina e dell'appoderamento mezzadrile nel territorio della piana reatina risultano in genere costruite su due piani, sfruttando il pianterreno per la stalla e il deposito degli attrezzi, e limitando alla cucina e ad un'unica stanza da letto gli ambienti domestici, raggiungibili mediante la scala esterna addossata alla facciata. Il vano del ballatoio, solitamente coperto con una tettoia di laterizi, era in genere sfruttato come legnaia. L'arredamento degli interni aveva nel camino, solitamente di grandi dimensioni, l'elemento di maggiore rilievo.

Nella cucina trovavano posto la madia, la tavola - smontabile, sostenuta da cavalletti fino al XVIII secolo - corredata da panche, la piattaia e le suppellettili in rame, ferro, legno, ceramica. Quanto alla stanza da letto, era indispensabile la cassapanca contenente la biancheria, oltre ai pagliericci riempiti di foglie di granturco (le camiciole, sostituite ogni estate al momento del nuovo raccolto). Quando queste modeste dimore, cosi' essenziali negli elementi architettonici e negli spazi, erano di proprieta' della famiglia contadina, la semplicita' della struttura consentiva facilmente l'aggiunta di ulteriori corpi di fabbrica trasformando l'abitazione in plurifamiliare. Sono le falde dei tetti, dalle quote e dalle pendenze irregolari, a rivelare la varieta' dei rapporti domestici ed economici che si sono intrecciati all'interno di queste umili dimore, oggi ormai in massima parte abbandonate. Quando invece l'abitazione rurale non e'di proprieta' del contadino ma gli e'concessa in mezzadria, la costruzione - pur essenziale nelle forme e nelle dimensioni - e'il risultato di un'attivita' edilizia che si avvale di un progetto, solitamente redatto dagli agrimensori che compilano i cabrei degli Enti ecclesiastici e dei privati, proprietari dei fondi. L'agrimensore Benedetto Tarani, che nel 1765 compila il Catasto de terreni esistenti nel territorio di Rieti, spettanti all'abbadia di San Pastore, include nelle mappe alcune "case nuove fabbricate per comodo de lavoratori", oltre alle vecchie abitazioni a cui sono apportate modifiche e migliorie, Giuseppe Giannini nell'Assegna delli terreni di S. Agnese di Rieti che esistono nell'agro reatino nell' anno 1753 enumera casali monofamiliari e bifamiliari, alcuni muniti di torri colombaie, i borghesi, come i Blasetti o i Leoni, gli aristocratici, come i Vincenti e i Vicentini, i Vecchierelli e i Potenziani, preferiscono concentrare gli insediamenti in veri e propri villaggi o infittire la maglia dei casali in un sistema complesso e ordinato, piu' facilmente sottoposto al controllo dei fattori.

LE TORRI COLOMBAIE

Le torri colombaie, isolate o piu' frequentemente incluse nella struttura architettonica di un casale, erano destinate per lo piu' all'allevamento di piccioni e colombi, diffuso al punto da essere regolamentato nel 1492 mediante un'apposita riformanza ad integrazione degli Statuti civici reatini. Nel corso del XVI secolo, anzi, fu frequente l'utilizzo dei torrioni delle mura duecentesche, adibiti a colombaie da privati cittadini che ne avevano ottenuto l'autorizzazione da parte del comune, che riscuoteva annualmente un canone d'affitto in natura consistente in cinque coppie di colombi. Agili e svelte, spesso decorate finemente con mattoncini a ghiera che ben rispondevano alla funzione pratica di posatoi, articolate all'interno su tre o quattro livelli raggiungibili dal basso mediante scale a pioli, intonacate all'esterno per impedire l'accesso ad animali predatori, le colombaie garantivano il continuo approvvigionamento di concime, diluito ed utilizzato per le colture.

Un documento redatto dal notaio Giovanni Battista Colarieti nel 1754 descrive dettagliatamente una colombaia di proprieta' del Seminario, data in enfiteusi per quarantacinque anni a tal Giuseppe Marolani: "…l'ho trovata composta a pian terreno di due stanze ad uso di stallette, con due porte una verso la strada e una verso li campi, con fusti vecchi, sue serrature e catenacci, e poi le d.te stanze sono rustiche e nella seconda stanza vi stava una magnatoia di muro con stanga sopra nel'altra vi stanno le scalette di tavole vecchie che salino alle stanze di sopra. E poi sallito di sopra ho trovato una stanza ad uso di cucina, con cappa e cammino e tetto impianellato (…). E poi sono entrato nella seconda stanza al detto piano e l'ho trovata gia' stabilita vecchia, nera con pesile ad uso di soffitto vecchio et un pezzo rifatto di novo di sopra senza scala per sallire di sopra alla palombara e si salle con scala di piroli, e poi il mattonato sta passabile e li fusti della finestra parimente sono tutti vecchi (…). E poi ho sallito di sopra con la scala di piroli alla detta stanza ed ho trovato una stanza alta fatta da uso di palombara col tetto vecchio impianellato e d.ta palombara sta rustigha con quantita' di buchi e finestre dirute senza altri pesili" .

I COMPLESSI RURALI

Nel cuore della conca, dove prevalgono il latifondo e la monocoltura - con prevalenza di grano e granturco, a cui si sostituiscono nel tempo guado, barbabietole e tabacco - i proprietari costruiscono complessi residenziali plurifamiliari dalle forme ampie ed a volte imponenti, non prive di una rustica armonia architettonica. e'articolato su tre distinti corpi di fabbrica il casale dei marchesi Canali in localita' Pratolungo: al centro del grande edificio a due piani, e'un loggiato comune a cui fanno ala due porzioni aggettanti su cui si aprono i portoni di accesso. Gli stipiti in pietra, le cornici delle finestre, i marcapiano rivelano un'attenzione ed un gusto mirato a conferire armonia e pregio alla solida costruzione rurale. Si sviluppa longitudinalmente, con i magazzini addossati alla facciata meridionale, il complesso della Palombara lungo la via Terzana. La torre che da nome all'edificio s'innesta a chiudere il lato ovest, mentre il lato est e'circoscritto da due edifici digradanti. Il Casal Grande, di proprieta' Potenziani, consta di diciotto vani destinati ad uso abitativo per due famiglie. Ad eccezione delle cucine e delle stanze da letto, gli ambienti si prestavano ad essere utilizzati come magazzini, granai, bigattiere. Le forme di altri edifici, come il grande complesso rurale di Settecamini, di proprieta' della famiglia Blasetti, il casale Vicentini di Peschiolato o il complesso di Piedifiume denunciano il progressivo ampliamento mediante la giustapposizione di nuove porzioni, differenziate per forme e per funzioni, adiacenti o prospicienti agli edifici piu' vecchi.

LE RESIDENZE SIGNORILI DI CAMPAGNA

La conca reatina, cosi' come l'ampia fascia collinare che le fa da cintura, ben si presta ad associare residenze e ville signorili accanto alle modeste case contadine o ai grandi casali dei fittavoli. Qui i ricchi proprietari vivevano per i periodi del raccolto, per far vacanza insieme con i loro ospiti attendendo nel contempo al controllo delle operazioni agricole. Sorgono cosi' la solida villa Vecchiarelli a Monticchio, l'elegante villa Ponam sulle colline di Poggio Fidoni, la neoclassica villa Rosati Colarieti presso Castelfranco, la villa Dupre' Theseider, quasi una fortezza, sui colli di Sant'Elia: ma la residenza signorile piu' imponente e'il castello di Terria, all'origine un casamento a tre piani eretto dai conti Vincentini (XVII sec.), ristrutturato negli anni '40 dell'Ottocento dall'architetto Giuseppe Valadier, che lavoro' a lungo per il conte Giacinto Vincenti Mareri, attualmente sottoposto ad un impegnativo intervento di consolidamento e restauro dal duca Piergentile Varano. Fu il Valadier a conferire al complesso di Terria l'assetto di un castello, circoscrivendo con un poderoso muro di sostruzione il pianterreno del palazzo, ampliato mediante la costruzione delle due ali che affiancano la corte interna e impreziosito mediante l'innalzamento di una nuova torre, disassata rispetto alla facciata, ma simmetrica per forma e dimensioni rispetto all'antica piccionaia. Il palazzo raggiunse cosi' dimensioni considerevoli, con le sue 131 stanze che celano sotto i dipinti ottocenteschi ancora la traccia delle decorazioni parietali dei secc. XVII-XVIII. La cappella gentilizia, all'interno del palazzo, si apre lungo la facciata settentrionale, coronata da un piccolo campanile a vela. L'interno e'semplice e raffinato: sull'altare in stucco indorato e'una Madonna con i Santi Francesco e Domenico, eseguita dal pittore sabino Vincenzo Manenti intorno al 1635, che inserisce il tema devozionale della Sacra Conversazione sullo sfondo del panorama reale, la verde vallata circoscritta dall'acrocoro di colline e montagne al centro della quale spicca la mole della residenza signorile. Passato per via ereditaria dai Vicentini ai Vincenti Mareri, fino ai Varano , il castello di Terria e'al centro di un reticolo di case coloniche e di opifici ordinatamente distribuiti intorno al perimetro della residenza signorile. IL CAMPO REATINO E LE SUE CHIESE Le bolle con cui durante il XII secolo i pontefici stabiliscono gli ambiti territoriali della Diocesi reatina, costituita giuridicamente fin dal V secolo, enumerano varie chiese nel territorio extraurbano definito come Campo Reatino. Nel 1182, papa Lucio III si rivolge cosi' al vescovo Benedetto: "ut Universae Parochiae fines sicut a tuis antecessori bus usque hodie possessi sunt, ita omnino integra tam tibi, quam tuis successori bus in perpetuum conserventur". Dallo spartiacque degli Appennini segnato dal corso del Tronto e del Corno a nord, ad Est fino a Canemorto, a sud fino al corso del Farfa e del Galantina, ad ovest fino ai monti del Tancia "plebes omnes cum Capellis, vel Ecclesijs, et quidquid in presentiarum iuste, et canonice possides, aut in futurum concessione pontificum, largitione Regum, vel Principum, oblatione fidelium, seu alijs modis, praestante Domino, poteris adipisci, firma tibi, tuisque successoribus, et illibata permaneant in quibus haec propriis duximus exprimenda vocaboli". Questi confini furono riconfermati nella bolla emanata da Rieti l'8 settembre 1219 da papa Onorio III. Il dettagliato elenco delle pievi include almeno cinque chiese disseminate nella vasta distesa dell'ager reatinus, sotto i titoli di Santa Maria, Sant'Andrea, Sant'Ermes, Sant'Eleuterio, San Pietro, a cui va aggiunta la chiesa di Santa Maria in Pratolungo. L'individuazione dei luoghi in cui questi luoghi di culto e di assistenza furono eretti fin dai primi secoli dell'era cristiana non risulta sempre agevole: e'di palmare evidenza infatti che il toponimo Campo Reatino, evidente volgarizzazione del latino ager reatinus, si riferisca ad un'area tanto ampia, quanto indeterminata, ai margini della citta' che fino alla meta' del XIII secolo era ancora arroccata sullo sperone calcareo lambito a meridione dalle acque del Velino, insidiato a settentrione dagli effetti dell'impaludamento determinato dalla crisi altomedievale. Nel 584, il territorio reatino entro' a far parte del Ducato di Spoleto. Due secoli piu' tardi, fra il 773 e il 774, Rieti fu eretta a contea da Carlo Magno, di cui sostenne l'ascesa. Cessato il pericolo saraceno, che imperverso' nel corso del X secolo in Sabina, arrestandosi sulla sponda sinistra del Velino, fino al XII secolo Rieti fu avamposto dell'Impero, scenario delle aspre contese che insanguinarono il territorio italico, tanto da subire fra il 1149 e il 1151 un durissimo assedio da parte di Ruggero di Sicilia. La citta' fu ricostruita quasi dalle fondamenta, fra il 1154 ed il 1156, grazie al sostanziale contributo di Roma. Conquistato nell'ultimo quarto del secolo il rango di libero comune, nel 1198 Rieti entro' definitivamente nell'orbita politica del Patrimonio di San Pietro. Nel corso di questi lunghi secoli, mentre si compivano fatti salienti per la grande storia, la vita quotidiana degli agricoltori della piana continuo' a trascorrere dura e monotona, faticando da stelle a stelle per strappare alla terra il nutrimento per se' e per gli armenti, per sottrarre il raccolto alla violenza della natura e alle insidie delle razzie. La presenza assidua della Chiesa rappresento' senza dubbio in questo territorio un elemento di salvaguardia e tutela, non soltanto di moralizzazione dei costumi per il popolo delle campagne. I Benedettini sono presenti con i loro romitori, i Cistercensi contribuiscono in maniera determinante alla bonifica della piana. Fra i luoghi sacri enumerati nelle bolle pontificie del XII secolo, il piu' antico insediamento e'senza dubbio quello di Sant'Eleuterio in Campo Reatino, gia' citato nel 770 dal Regesto Farfense . Secondo la tradizione, nel 137 il vescovo Primo provvide a seppellire in un suo terreno ai margini orientali della piana reatina le spoglie dei martiri Anzia ed Eleuterio, messi a morte a Roma. La Passio del martire Eleuterio, figlio di Anzia vedova del console Eugenio, in lingua greca, risale al V secolo: secondo il testo, Eleuterio fu consacrato vescovo dal pontefice Aniceto ed inviato nell'Illirico. Da qui fu richiamato a Roma al tempo dell'imperatore Adriano per affrontare il processo insieme alla madre, anche lei convertita al cristianesimo. Una versione latina dell'VIII sec. indica "in Apuliam Aecanam civitatem" la sede episcopale dove sarebbero state traslate le reliquie di Anzia ed Eleuterio, martirizzati il 18 di aprile, data che ricorre costantemente negli Officia Propria pro Cattedrali Basilica Reatina ejusque Dioecesis. Il Martirologio Geronimiano ne fissa invece la data al 24 novembre pur segnalando la custodia delle reliquie "in civitate Riatensi". Fra il V e il VI secolo, il Benedettino Santo Stefano da Rieti fondo' una comunita' monastica presso il sacello dei due martiri. La devozione verso Sant'Eleuterio venne ad accrescersi alla morte del vescovo San Probo, quando i Santi Eleuterio e Giovenale apparvero in visione ad accompagnare la sua anima in paradiso. Cosi' la vicenda tramandata da papa Gregorio Magno divenne motivo ispiratore di un affresco di Vincenzo Manenti, voluto dal vescovo cardinale Francesco dei conti Guidi di Bagno (1635-1639). Il Regesto farfense documenta nel 747 la presenza di Liutprando presso l'abbazia suburbana. Documenti successivi a cavaliere dell'anno mille descrivono l'"ecclesia S. Eleutheri ad rivum" puntualizzando "quae sita est iuxta civitatem reatinam". A quest'epoca risale la donazione della chiesa e dell'annesso monastero da parte del conte Grimaldo Gentili al Capitolo della Cattedrale. Nel 1165, Siginulfo cedette al vescovo Dodone i suoi possedimenti a Fontecerro "ad hospitale ibi in honorem Dei et beate sempre Virginia Marie ma tris eius et beati Euletherii martiris edificandum pro redemptione anime". Le fonti francescane concordano nell'individuare nell'abbazia dei Santi martiri Anzia ed Eleuterio uno dei luoghi frequentati assiduamente da San Francesco. Distrutta al tempo dell'assedio di Ruggero II, l'abbazia reatina venne ricostruita dal vescovo Adolfo Secenari e consacrata da Innocenzo III dimorante a Rieti nel 1198. In questa circostanza, alla presenza del pontefice, le reliquie dei Santi martiri furono traslate con una solenne processione dalla Cattedrale all'abbazia suburbana che rappresento' ancora a lungo un centro di grande prestigio per la spiritualita' dei suoi monaci. Destinata dal trascorrere del tempo ad un'inarrestabile decadenza, al tramonto del medioevo l'abbazia dei SS. Martiri Anzia ed Eleuterio fu riunita alla Cattedrale, come attesta una bolla emanata nel 1506 da papa Giulio II. La chiesa continuo' ad essere officiata con regolarita' dai Canonici del Capitolo, come risulta dagli Atti del Visitatore Apostolico monsignor Pietro Camaiani che la trovo' in ordine nelle strutture e negli arredi. Ma la condizione di isolamento in aperta campagna pochi anni prima aveva indotto al saccheggio dei malintenzionati alla ricerca di tesori. Il furto sacrilego era fallito, ma il Capitolo volle che nella primavera del 1562 le reliquie dei Santi Martiri titolari dell'abbazia fossero ricondotte in Cattedrale: qui furono disposte presso la cappella di Sant'Antonio di Padova, la seconda a cornu Evangelii, di cui deteneva il giuspatronato la famiglia Aligeri. Alla memoria dei Santi martiri fu dedicata nel 1586 una tela commissionata da Mario Aligeri all'aquilano Tobia Cicchini . Anche il complesso monastico di Sant'Eleuterio in Campo Reatino, detto dal popolo Sant'Amando o San Manno, fu devastato dai violenti terremoti del 1703: l'intervento di consolidamento e restauro, deliberato da monsignor Guinigi , fu portato a compimento dal suo successore monsignor Antonino Serafino Camarda. Nell'estate 1867, la chiesa di Sant'Eleuterio era ancora officiata, tanto da essere utilizzata come cappella funeraria per le esequie del vescovo monsignor Gaetano Carletti . In un suo scritto, il canonico Paolo Desanctis deploro' che non fosse stato consentito di esporre ne' di seppellire in cattedrale le spoglie mortali del vescovo, ma "ad solis occasum Pontificis exuviae, cum ex Italici Regni le gibus nemini detur posse in Ecclesiis urbanis sepeliri, eodem quo mane, dempto Episcopo Aquilano, comitatu, magno populi concursu et fletu, illatae sunt in Ecclesia S. Eleutheri apud commune Caemeterium inique estrema quiete adprecata, in sepulcro Capitolari ad tempus reconditae sunt". Pochi anni ancora, ed i lavori di ampliamento del Cimitero avrebbero portato all'abbattimento di quanto restava dell'antico complesso benedettino. Proseguendo vero a settentrione, la chiesa di San Pietro in Campo Reatino, nota fin dal'VIII secolo, sorgeva sui resti di una villa rustica di epoca romana. Anche la chiesa di Sant'Andrea in Campo Reatino, "extra et prope muros reatinos", vantava una remota origine benedettina. Nel 1500 , la chiesa in questione fu annessa al monastero di Santa Scolastica e sul finire del XVII secolo definitivamente distrutta per provvedere alla costruzione della nuova chiesa progettata da Francesco Fontana. Sant'Ermes, o Sant'Erasmo , era il titolo di una cappella annessa ad un hospitale costruito a cavaliere fra il XIII ed il XIV secolo, utilizzata ancora nel 1800 con funzioni cemeteriali. Due chiese hanno in comune il titolo di dedicazione alla Madonna: Santa Maria in Pratolungo e Santa Maria in Campo Reatino. Quest'ultima, eretta intorno alla meta' del XV secolo, fu affidata nel 1621 ai Padri della Dottrina Cristiana. Da questa Congregazione, nel 1747, passo' ai Chierici Ministri degli Infermi a cui era stata affidata la cura dell'ospedale di Sant'Antonio Abate e la parrocchia dei SS. Ruffo e Carpoforo. Nel 1853, la chiesa di Santa Maria in Campo Reatino fu demolita ed il pietrame ricavato fu utilizzato come materiale di risulta per la costruzione della nuova chiesa di Santa Barbara in Agro.

IL PROGETTO E LE FASI DI COSTRUZIONE DELLA NUOVA CURA DA ERIGERSI NELL'AGRO REATINO

Benche' nel suo saggio del 1926, La Cattedrale basilica di Rieti con cenni storici sulla altre chiese della citta' , Francesco Palmegiani stabilisca l'avvio dei lavori al 1859, seguito in questa datazione dagli eruditi locali e dagli svariati estensori dell'Annuario Diocesano, le fonti d'archivio dimostrano senza tema d'equivoco che i lavori per la "nuova cura da erigersi nell'Agro Reatino" hanno inizio pressoche' contestualmente alla demolizione della chiesetta di Santa Maria. Fin dal 1841, don Angelo Giordani amministratore della Parrocchia di San Donato paga le tasse alle autorita' civili e religiose per "cura da erigersi nell'Agro reatino" . Nell'Elenco Generale delle parrocchie e delle chiese della Citta' e Diocesi Benefici Parrocchiali Cappellanie sec. XIX, conservato presso gli Archivi Riuniti della Curia e'registrata la chiesa di Santa Barbara ai Comunali. Una cartella priva di segnature restituisce un interessante fascicolo di bollette e documenti contabili da cui e'possibile desumere puntuali notizie sull'andamento dei lavori. Il progetto e'affidato all'architetto Agostino Luigi Cleomene Petrini da Camerino, che in quel torno di anni realizza a Rieti la chiesa annessa all'Ospizio Cerroni (1856) e lavora per le dimore gentilizie dei De Marco in piazza del Leone, dei Corona nella piazza prospiciente alla chiesa di San Domenico, dei Moronti, dei Vincentini, dei Crispolti lungo via degli Abruzzi . Nella regione d'origine, tra il 1869 ed il 1884 il Petrini progetta e costruisce il teatro di Fabriano, si occupa del riassetto del teatro comunale di Matelica costruito ad inizio secolo dal Piermarini, progetta con soluzioni innovative l'acquedotto di Camerino. La chiesa e'ideata semplice nelle linee, armoniosa nella compatta volumetria: ha un'unica navata, il prospetto impreziosito da un timpano, l'abside in mattoni scandita da due pilastri che sostengono l'arco trionfale. I lavori fervono fin dalla primavera del 1854, quando i materiali di risulta della chiesa di Santa Maria in Campo Reatino vengono sollecitamente trasportati nel sito designato per la nuova costruzione. Lo dimostrano sei bollette - datate rispettivamente al 9 aprile, all'8 e al 30 maggio, al 4, al 19 e al 23 giugno - sottoscritte dal canonico Giovanni Tommasi ed indirizzate all'amministratore fiduciario Luigi Crispolti ed all'impresario Silvestro Marignetti. Particolarmente dettagliata e'la prima annotazione: "Il sig. Cl.e fara' grazia consegnare al Muratore Silvestro Marignetti la somma de' scudi quattordici pattuiti pel cottimo dello sfascio di Campo Reatino. Poi fara' grazia consegnargli baj. Venticinque per aver cavato la terra cotta dalla cameretta della chiesa e trasportata nella piazzetta" . Oltre ai materiali recuperati, e'indispensabile l'acquisto di calce, legname, ferro. Sono dettagliati i conti dei fabbri e dei falegnami che lavorano per la costruzione della nuova chiesa. La calce viene acquistata a piu' riprese, fra il 1854 e il 1859. dalla calcara di Vecchiarelli e da Angelo Faraglia di Lisciano. Il trasporto e'affidato ai muli di un tale Paolo Masci di Lugnano con la spesa di 21.2 bajocchi alla soma. Nel 1855 Giuseppe di Guido fornisce i travi per il tetto, diciassette lunghi 18 palmi, otto lunghi 19 palmi, quattordici lunghi 21 palmi. Il legname - castagno, acero, pioppo - necessario per la costruzione degli arredi e'acquistato nel 1862 da Giuseppe Costantini del Varco. L'albuccio e'fornito da Pippo Petrongari. Tra il 1856 e il 1859 il falegname Ludovico Sforzi esegue scale, solai, "telari, un inginocchino, accomodatura della rinchiera al parrapetto delle scala del soffitto" per un totale di 6 scudi e baj. 15, e ancora la bussola, quattro porte a muro, un aporta foderata, due porte per il coretto, i telai delle finestre della chiesa e della casa parrocchiale, due banchi da sedere. I fabbri Cesare e Pietro Trinchi, Francesco e Luigi Nardi, Silvestro Piacentini provvedono fra il 1854 e il 1861 alle varie necessita' "per la Chiesa nova fuori di porta Cintia". Una nota del maggio 1854 riporta la lista dei muratori e manovali retribuiti per il lavoro prestato: Francesco Panunzi, Antonio Laureti, Ferdinando Santori, Vincenzo Rocchi, Domenico Peschi, Giovanni e Luigi Nardi, Francesco D'Angeli, Antonio Ponteggi, Alessandro Cannella, Agnese Malfatti e Caterina Talocci, le donne incaricate di smorzare la calce, oltre a tre ragazzi assunti ad opera per due giornate.

IL CROCIFISSO DI SAN DOMENICO

HAEC CRUCIFIXI IMAGO APUD QUAM B. COLUMBA A
REATE PLERUMQUE ORASSE FERTUR IBI IN AEDE
S. DOMINICI MAXIMOQUE ALTARI ANTIQUITUS COLEBA
TUR INDE ANNO MDCLIII IN NOVUM ALTARE EST DE
PORTATA UBI SANCTORUM RELIQUIAE SERVABANTUR.
HIC USQUE AD FRATRUM PRAEDICATORUM EIECTIO
NEM PERMANSIT. HISCE NEQUISSIMIS TEMPORI
BUS EX HOC ALTARI IMPIA MANUS CUM PERGRAVI
DIUTISSIMOQUE VITAE DAMNO EAM DETRAHERE AU
SA EST. QUARE OMNIBUS PRAE TIMORE APUD SE
EAMDEM RETINERE RENUENTIBUS IN EPISCOPALI
AEDE ALIQUANDIU DEMORATA EST MODERANTE
REATINAM ECCLESIAM CAIETANO CARLETTI DOMO
FERRARIA QUI EAM TEMPLO S. BARBARAE A SE
EXTRUCTO COLENDAM DEDIT. CUIUS IN DEPORTA
TIONE COELUM E PROCELLOSO IN SERENUM IL
LICO PERMUTATUM EST. IBI USQUE AD ANNUM
MXMXVIII IN LAEVO ALTARI PERMANSIT QUO TEM
PORE TEMPLO INSTAURATO EX HOC ALTARI IN
MAXIMUM CUM MELIORE CULTU TRANSALTA
EST. MXMXVIII

Sul marmo bianco venato di grigio apposto alla parete destra della cappella del SS. Crocifisso, spicca il testo di questa epigrafe latina, ispirata alla dolente narrazione che il canonico don Vincenzo Boschi aveva fatto dei giorni convulsi che seguirono all'attuazione delle leggi eversive, con la diaspora degli Ordini Mendicanti e la sistematica dispersione dei beni delle chiese e dei conventi che nel corso dei secoli erano stati scrigno di opere d'arte pregevoli, testimonianza della pieta' popolare e dell'abilita' degli artisti locali. La chiesa dei Domenicani, additati dall'anticlericalismo dominante come gli ottusi e sanguinari custodi dell'antico regime, fu fatta oggetto di un sistematico saccheggio: gli stalli del coro ligneo furono riadattati per arredare la sala consiliare del municipio, gli arredi sacri furono inventariati per essere esposti presso la costituenda pinacoteca civica , le canne tortili dell'antico organo furono usate come trombette dai monelli del rione, le campane di bronzo fatte precipitare dalla torre secentesca e vendute ad un mercante perugino perche' le potesse fondere e farne delle armi. Alla profanazione fu sottratto soltanto il Crocifisso trecentesco al cui cospetto era maturata la scelta di vita religiosa della beata Colomba, ancora venerata dal popolo reatino. In realta', era la superstizione ad allontanare mani sacrileghe dal sacro legno: chi aveva tentato di schiodare la grande croce, era malamente precipitato al suolo rimanendo paralizzato. Dopo questo episodio, nessuno piu' aveva osato tentare l'impresa.



Cosi' il Crocifisso trovo' temporaneo ricovero "in episcopali aede" per essere poi affidato alla custodia della Chiesa Nuova. Sotto il profilo storico-artistico, si tratta di una pregevole opera di ebanisteria databile all'ultimo quarto del XIV secolo, modellata portando felicemente a sintesi le forme del Christus patiens, agonizzante nell'esperienza della morte fisica, e del Christus triumphans, che ha sconfitto la morte e promette all'umanita' sofferente il premio della vita eterna. In un saggio del 1935, lo storico Domenicano padre Alberto Zucchi riportava la testimonianza di un priore del XVIII secolo, padre De Polis, secondo cui la croce era stata realizzata nel 1370 "a spese e per divotione di Andrea Pennetti e di Vanna sua consorte" e collocata "nel mezzo del piedistallo che sosteneva un'alta e ampia macchina terminata nella sommita' in piu' tavolette piramidali nella quale in campo d'oro si vedevano maestrevolmente piantati piu' santi" . Dunque, secondo l'uso toscano, il Crocifisso era collocato su un'alta iconostasi, sovrastando le tavole del polittico di Luca di Tome' , vanto del Museo Civico. Nel 1676, il complesso allestimento dell'altare maggiore fu smembrato e il Crocifisso fu collocato presso l'altare gentilizio degli Angelotti, patrizi reatini che avevano in San Domenico diritto di sepoltura. Qui la preziosa croce rimase per due secoli, fino ai dolorosi eventi che segnarono la temperie postunitaria.

Nel luglio 1869, quando ormai la chiesa dei Padri Predicatori era stata spogliata dei suoi arredi piu' preziosi, ad impedire un'ulteriore profanazione d'intesa con il vescovo Mauri il parroco della Chiesa Nuova fece istanza al Sindaco di Rieti per ottenere la custodia del Crocifisso: "All'Ill.mo ed Onorevole Signore Sig. Sindaco di Rieti Gaetano Marzolani Parroco della V.le Chiesa di S. Barbara in Agro Reatino prega umilmente la Sig.ria Vostra Ill.ma perche' gli voglia permettere di trasportare nella sua Chiesa, e porre alla pubblica venerazione l'Immagine del Crocefisso di pertinenza dell'ex convento di S. Domenico, obbligandosi a restituirla ad ogni richiesta" . La Giunta municipale acconsenti', conferendo al Signor Giuseppe Grillo in data 20 agosto l'incarico di consegnare il Crocifisso facendosi rilasciare una dichiarazione sottoscritta da don Marzolani. La ricevuta e'datata al 28 agosto successivo. Nella quiete della Chiesa Nuova, la pieta' popolare accolse festosamente l'arrivo del Crocifisso, intorno a cui crebbe la devozione e si diffuse la pia pratica delle processioni. Proprio in memoria delle vicissitudini che nella seconda meta' dell'Ottocento avevano indotto i suoi predecessori monsignor Gaetano Carletti e monsignor Egidio Mauri ad affidare il miracoloso Crocifisso alla comunita' della Chiesa Nuova, constatata la sincera devozione fiorita nel corso di un secolo, il 14 settembre 1989 emanando un proprio Decreto il vescovo Francesco Amadio dichiarava la chiesa di S. Barbara in Agro Reatino Santuario Diocesano del Crocifisso. Nel corso degli anni, pero', la continua esposizione alle variazioni atmosferiche, l'esposizione alle intemperie accentuo' il progressivo degrado del prezioso manufatto, sottoposto a restauro conservativo nel 2005. In seguito, grazie al generoso finanziamento della Fondazione Varrone, i maestri restauratori Luigi Verzilli e Simone Battisti hanno riprodotto in resina il modellato plastico del Crocifisso, destinato ad essere esposto durante le processioni, cosi' da poter conservare definitivamente la statua trecentesca all'interno della cappella.

IL PORTONE DALLE FORMELLE IN BRONZO

Nel 1978, l'ampio portone della chiesa viene reso ancor piu' maestoso grazie alla decorazione delle formelle bronzee progettate e realizzate dalla Fonderia Artistica Versiliese. Si tratta di tre distinti elementi plastici, realizzati a fusione, che si sviluppano ordinatamente in alto, a coronamento del portale, e sulle due ante, proponendo una essenziale sequenza di immagini dal chiaro significato evocativo. La formella ancorata in alto al centro del portale si dispone orizzontalmente, raffigurando la croce con l'iscrizione IN HOC SIGNO VINCES A.D. 1978 su un plafond di segni astratti che evocano la corona di spine e la raggiera di luce che si sprigiona dal simbolo della redenzione. Le due formelle verticali rappresentano, rispettivamente, l'estasi della beata Colomba al cospetto della croce e la consacrazione di Maria Ponchiardi missionaria del SS.mo Crocifisso. Il bassorilievo dell'anta sinistra presenta dunque la silhouette della terziaria domenicana Colomba da Rieti, mistica della prima eta' moderna, inginocchiata di fronte alla croce di San Domenico. In alto, scorre l'iscrizione LA BEATA COLOMBA DA RIETI
A COLLOQUIO CON IL
CROCIFISSO MIRACOLOSO.

Stando alla Legenda raccolta dal suo confessore, il domenicano Sebastiano Angeli, Colomba da Rieti ebbe il privilegio di ascoltare dalla viva voce del Cristo crocifisso le parole sublimi che la esortarono alla consacrazione, fugando ogni suo dubbio e dandole la forza di opporsi alla volonta' dei familiari, che la destinavano alle nozze. La vita della beata Colomba, breve ed intensa, si consuma fra Rieti e Perugia contemperando azione e contemplazione. Di questa straordinaria esperienza, la formella del portale della chiesa di Santa Barbara in Agro propone un'efficace sintesi plastica. Narrativo e'del pari l'impianto del bassorilievo dell'anta destra, dove e'raffigurato un Vescovo, paludato con mitria e pastorale, che consegna una croce ad una giovane donna. L'iscrizione spiega

S.E. MONS. B. MIGLIORINI VESCOVO
DI RIETI FONDATORE DI QUESTO SANTUARIO
CONSACRA MARIA PONCHIARDI
MISSIONARIA DEL S.S. CROCIFISSO 1946.
Le immagini dei bassorilievi, dal fine ed efficace modellato, esprimono con chiarezza, in ossequio alla tradizione figurativa, il messaggio cristologico affidato alla chiesa di Santa Barbara in Agro, custode dell'antico Crocifisso. Le due figure femminili, la mistica del XV secolo, la missionaria del XX, al di la' della loro esperienza di vita, sono anch'esse elementi simbolici capaci di incarnare il messaggio di una Chiesa sensibile al mutamento dei tempi, capace di dare risposta ai bisogni materiali e spirituali dell'umanita' nel segno di Gesu' Cristo, signore del tempo e della storia.

L'ARREDO E LA DECORAZIONE DEGLI INTERNI

Linda e ordinata, luminosa e accogliente la chiesa di Santa Barbara in Agro potrebbe definirsi come un buon esempio dell'eclettismo affermatosi fra la seconda meta' dell'Ottocento, ampiamente diffuso nel corso del Novecento, fino al Concilio Vaticano II che ha affrontato radicalmente il tema della progettazione e dell'allestimento degli spazi liturgici: cosi' come l'aspetto architettonico che pure esula dalle forme usuali ben si armonizza con la natura, ricordando con la vaghezza delle forme le pievi che costellano la pianura Padana, gli interni accolgono opere eterogenee per stili e materiali, che pure si ricompongono in una sostanziale unita' data dalla devozione sincera dei committenti, dalla dedizione dei parroci che si sono succeduti nel corso di questi centocinquanta anni alla guida di una comunita' che ha saputo vedere nella propria chiesa il segno tangibile della propria essenza. Dopo l'avvio della costruzione, rapidamente compiuta fra il 1859 ed il 1863 nelle linee essenziali dell'impianto architettonico, una stagione particolarmente intensa coincide con la presenza del parroco don Vittorio Giusto. Il secondo dopoguerra vede cosi' riprendere i lavori con la costruzione dell'alto campanile, che con i suoi trentatre metri di altezza segna il profilo dell'abitato disteso sulla pianura vegetata. Anche l'aula destinata alla liturgia fu radicalmente rinnovata mediante l'aggiunta delle navate laterali, decorate a mosaico come il presbiterio ed il fonte battesimale. I temi iconografici prescelti riflettono la duplice intitolazione della chiesa alla martire Barbara, patrona della citta' e della campagna, ed al Cristo che attraverso il sacrificio della croce riscatta l'umanita' dal peccato e dalla morte dello spirito. Cosi' nel catino absidale e nel presbiterio furono realizzate con le luminescenti tessere musive in pasta vitrea le immagini del Buon Pastore e le scene della vita di Santa Barbara, mentre il fonte battesimale fu decorato con la raffigurazione del battesimo di Gesu'. Nel 1990, Roberto Taito realizzo' per la chiesa di Santa Barbara in Agro tre tele raffiguranti le fasi salienti del martirio della Santa: Santa Barbara al cospetto del giudice, sottoposta al martirio, visitata da Cristo in carcere. I tre grandi acrilici su tela sono ancorati al soffitto della navata centrale. Taito, fumettista e scenografo di vaglia approdato alla Rai e a Cinecitta' dopo un'infanzia girovaga al seguito dei suoi familiari, titolari di una delle ultime compagnie di teatro viaggianti impegnata nella divulgazione delle pie'ces piu' amate dal pubblico, intende la superficie della tela come uno spazio narrativo scandito in sequenze in cui si consuma una storia capace di suscitare i sentimenti piu' intensi: la pieta' per la fanciulla perseguitata, l'orrore per i carnefici, il disprezzo per il padre crudele ed insensibile, che sacrifica la sorte della figlia all'ambizione personale. Anche la tavolozza si addensa, a partire dai colori primari: il risultato e'efficace, diretto, semplice ma mai banale, poiche' al di la' dell'apparente naïvete' dell'impianto descrittivo traspaiono gli esiti di uno studio attento ed accurato delle fonti iconografiche, come dimostra nell'acrilico dedicato alla scena della tortura la replica di un affresco del XVIII secolo che il cavalier Concioli realizzo' nella cappella dedicata in Cattedrale alla patrona di Rieti. L'impianto figurativo aderente alla narrazione dei Vangeli caratterizza del pari la serie delle formelle mistilinee della Via Crucis in rame lavorato a sbalzo con gradevoli effetti plastici, realizzata fra il 1967 ed il 1972.

I LASCITI DEL PASSATO

Le sagrestie della chiesa di Santa Barbara in Agro custodiscono due tele dei secc. XVII-XVIII, entrambe ispirate alla devozione per la Vergine Maria: si tratta di una grande Madonna in maesta' (cm. 153 x 210) riconducibile alla bottega di Lattanzio Niccoli e di una piu' modesta Madonna Incoronata ( cm. 100 x 75) di cui s'ignora la provenienza. e'plausibile supporre che siano appartenute alla vetusta chiesa di Santa Maria in Campo Reatino, costruita dopo che si diffuse nella piana la venerazione per una miracolosa immagine della Vergine, custodita in una edicola. Ne parlano le Riformanze, che al 14 giugno 1468 annotano la deliberazione del commissario apostolico monsignor Baldassarre da Pescia di affidare la raccolta e la custodia delle elemosine a sei cittadini, eletti in rappresentanza di ciascuno dei sestieri , perche' provvedessero alla costruzione di una chiesa rurale intitolata alla Madonna. La chiesa, di proprieta' del Capitolo della Cattedrale, risulta costruita entro il 1490 ed affidata alla custodia di un eremita. Gli Atti della Visita Apostolica condotta da monsignor Pietro Camaiani fra il dicembre 1573 e l'aprile 1574 registrano lo stato della chiesa, allestita decentemente e dotata di tre altari: l'altare maggiore con l'immagine della Madonna, l'altare a cornu Epistulae dedicato a San Girolamo, l'altare a cornu Evangelii dedicato alla Pieta'. Nel 1620, il Capitolo della Cattedrale cedette la piccola chiesa rurale ai Padri della Dottrina Cristiana, con l'incarico che si impegnassero ad istruire i figli dei contadini. L'11 marzo 1621, i Padri Dottrinari presero possesso della chiesa impegnandosi al pagamento annuo di una libbra di cera da conferire alla Cattedrale in occasione della festivita' dell'Assunta. Dopo la soppressione della congregazione dei Padri della Dottrina Cristiana , la chiesa di Santa Maria in Campo Reatino fu officiata dai Chierici Ministri degli Infermi, che la adibirono alla mansione di chiesa cemeteriale. La datazione delle due tele di ispirazione mariana suggerisce che queste potrebbero riferirsi al duplice passaggio di consegne dal Capitolo della Cattedrale ai Padri della Dottrina Cristiana, gia' titolari della chiesa e del complesso di San Paolo, e da questi ultimi ai seguaci di San Camillo de' Lellis. In particolare, la grande tela raffigurante la Madonna con il Bambino Gesu' benedicente in un tripudio di angeli, assisa su una folta nube ovattata, presenta i tratti propri della maniera del cavalier Lattanzio Niccoli : il fondale compatto, privo di riferimenti paesaggistici ma circonfuso da un'intensa luminosita', la fisionomia degli angeli e del Bambino Gesu' dai tratti marcati e dalle testine ricciute, la gestualita' vivace, enfatica dei personaggi che affollano la scena sono infatti elementi ricorrenti nella composizione delle opere migliori di questo artista. Piu' difficile ipotizzare un'attribuzione per la tela della Madonna Incoronata, certo convenzionale nell'impianto e nelle scelte cromatiche, ma gradevole ed armonioso nella semplicita' espressiva del gesto benedicente del Bambino Gesu', nello sguardo velato della Vergine, presaga della sorte terrena del Figlio, cui porge la croce. Accanto a queste tele, un solido confessionale in legno, lavorato non senza perizia ed eleganza da anonime maestranze locali, un calice in ottone ed argento indorato con una lavorazione che alterna motivi geometrici e palmette fanno parte del lascito che la chiesa di Santa Barbara in Agro ha raccolto dalle piu' antiche pievi rurali.

I VESCOVI E LA CHIESA NUOVA

Nei suoi centocinquanta anni di vita, Santa Barbara in Agro, la Chiesa Nuova, e'stata particolarmente a cuore ai Vescovi che si sono succeduti alla guida della Diocesi reatina. Il primo a porsi di fronte alla necessita' di smembrare il vasto territorio campestre soggetto alla chiesa di San Donato nell'intento di erigere a sede parrocchiale una chiesa rurale fu il Carmelitano Timoteo Maria Ascensi, nato a Contigliano nel 1750. Ordinato sacerdote nel 1773, era stato insegnante di teologia dogmatica e teologia morale presso numerosi conventi Carmelitani e Seminari Diocesani. Fu apprezzato come predicatore in varie citta' d'Italia. Papa Pio VII lo nomino' Generale dell'Ordine dei Carmelitani Calzati. Fu poi Convisitatore Apostolico dell'Ordine fin quando, a settantaquattro anni di eta', fu eletto vescovo di Rieti da papa Leone XIII nel maggio del 1824. Resse la diocesi fino all'anno 1827, quando fu trasferito alla guida della diocesi di Osimo. Destinato alla porpora, mori' pochi giorni prima di essere consacrato cardinale. Il suo successore, il faentino Filippo Curoli, aveva individuato la sede piu' adatta nella chiesa di Santa Maria in Campo Reatino , ai margini della piana. Alla sua spiccata sensibilita', nutrita da una vasta cultura, non sfuggiva l'esigenza di offrire il conforto di una presenza pastorale assidua e sistematica alle famiglie contadine che popolavano le campagne. Nato nel 1796, addottorato in utriusque iure nel 1820, a ventisei anni fu ordinato sacerdote. Nel 1824, si laureo' in filosofia e teologia. Dopo una breve esperienza diplomatica condotta presso la Nunziatura di Baviera, fu nominato segretario del Nunzio Apostolico di Lisbona: qui, prodigandosi nell'assistenza agli ammalati durante un'epidemia di colera, fu contagiato dal morbo e sollecitamente rimpatriato. Gli fu allora affidata la diocesi di Rieti, sede vacante dal maggio 1834, che egli accetto', consapevole delle proprie precarie condizioni di salute, solo dopo le reiterate insistenze del cardinal Pacca e dello stesso pontefice, papa Gregorio XVI. Consacrato vescovo di Rieti il 5 ottobre, entro' solennemente in diocesi quindici giorni piu' tardi, il 19 ottobre 1834. Resse con zelo e dedizione la diocesi fino al 26 gennaio 1849, nonostante il progressivo aggravarsi del suo stato di salute, nella dura temperie degli anni che prepararono l'unita' d'Italia. Il progetto vagheggiato dai vescovi Ascensi e Curoli fu ripreso e portato a buon fine da monsignor Gaetano Carletti che, ad onta delle angustie dei tempi nei quali fu chiamato a reggere la diocesi reatina, riusci' nell'intento di dare nuovo impulso alla schietta religiosita' popolare attraverso l'erezione della chiesa di Santa Barbara in Agro Reatino. Durante il periodo del buon governo, fra il congresso di Vienna e la Repubblica Romana, i vescovi che si susseguirono amministrarono la Diocesi con equilibrio e dedizione, fin quando la citta' rimase fedele alle sorti dello Stato della Chiesa. Nel 1861 Rieti entro' per effetto dell'annessione a far parte del Regno d'Italia. Il vescovo Carletti, convinto assertore del potere temporale dei Papi, emano' allora direttive prudenti che contribuirono a mantenere un clima di relativa calma. Cio' non impedi' le devastazioni provocate dall'attuazione delle leggi eversive, applicate nel territorio gia' appartenente allo Stato Pontificio fin dall'11 dicembre 1860, nel territorio gia' del Regno di Napoli attuate invece fra il gennaio ed il febbraio 1861. Anni difficili si presentarono per i seguenti vescovi, il Domenicano Egidio Mauri (1867-1888), monsignor Carlo Bertuzzi (1888-1894), Bonaventura Quintarelli (1894-1915), Francesco Sidoli (1916-1924). Dopo ventuno anni di assiduo operato, monsignor Mauri fu allontanato dalla diocesi per le pressioni delle logge massoniche. Nella lettera pastorale che lascio' ai fedeli all'atto della sua forzosa partenza, scriveva a proposito della chiesa di San Domenico, ridotta dal Regio Esercito a stalla per i muli: "Addio, o Tempio, sebbene per piu' anni miseramente profanato, che al mio Patriarca Domenico fosti gia' trono di gloria, che cingesti la fronte di Lui dell'aureola dei Santi, che vedesti per secoli lunga ed onorata successione dei tuoi figli: oh! Il Cielo ti guardi pietoso e Ti ribenedica!". Intanto, pero', dalle rovine di San Domenico aveva contribuito a porre in salvo il prezioso Crocifisso affidato nell'agosto 1869 alla comunita' di Santa Barbara in Agro, che nella Relatio ad limina Petri del 9 agosto 1875 al c. VII descrive brevemente cosi': "Parochiales 56, minores 71 in Ditione Provincia, Regno Neapolitano parochiales 105, minores 140 numerantur. Ex his novem in ipsa Civitate Episcopali reperiuntur, quarum duas Regulares administrant. His addenda est ruralis parochia apostolica auctoritate sub Episcopo Curoli erecta, et eadem apostolica auctoritate deinde sub Decessore meo sufficienti bus rediti bus suffecta" . L'unita' d'Italia accelero' i tempi di attuazione della revisione dei confini fra le Diocesi di Spoleto e di Rieti, che secolarmente avevano attraversato l'abitato di Leonessa. Piu' tardi, nel 1925, per effetto della Costituzione Apostolica In altis Sabinae montibus papa Pio XI avrebbe decretato l'annessione alla Diocesi delle parrocchie un tempo sotto la giurisdizione dell'Abbazia di San Salvatore Maggiore. Il reatino monsignor Massimo Rinaldi (1924-1941), missionario scalabriniano in America del Sud di cui si e'con successo avviato il processo di canonizzazione, fu il vescovo protagonista dei Patti Lateranensi, zelante nell'impegno pastorale, attivo nella difesa dei piu' deboli, fautore dell'Azione Cattolica e dell'associazionismo giovanile. Con pari dedizione, il francescano fra Benigno Luciano Migliorini (1941-1951) guido' la Diocesi negli anni difficili della guerra e della ricostruzione. All'episcopato di monsignor Migliorini, come gia' ricordato, si deve la ripresa dei lavori di ampliamento e di decorazione della chiesa e la costruzione del campanile negli anni difficili del secondo dopoguerra. Monsignor Raffaele Baratta, vescovo fra il 1951 ed il 1959, nel 1957 indisse il Sinodo Diocesano, dopo oltre due secoli dall'ultimo, compiuto nel 1749. Monsignor Nicola Cavanna (1960-1971) ed il suo successore monsignor Dino Trabalzini (1971-1980) guidarono la Diocesi nel cammino di rinnovamento indicato dal Concilio Vaticano II. Monsignor Francesco Amadio (1980-1989), che ebbe l'onore di ricevere in occasione dell'VIII centenario francescano la visita di papa Giovanni Paolo II a Rieti ed al santuario di Greccio, fu il fautore dell'erezione della Chiesa Nuova a Santuario Diocesano del Crocifisso. Monsignor Giuseppe Molinari (1990-1997) ha avviato il recupero della basilica duecentesca di San Domenico, restituita al culto in occasione del Giubileo del 2000, sotto l'episcopato dell'attuale vescovo, monsignor Delio Lucarelli, ordinato in San Pietro il 6 gennaio 1997.

LA VISITA APOSTOLICA DI PADRE EUGENIO DA SENIGALLIA, O.F.M. CAP.

Nell'autunno del 1904, la Diocesi di Rieti, cosi' come l'intera regione ecclesiastica umbra, fu sottoposta a Visita Apostolica. Il compito di Visitatore era stato affidato dalla Curia Romana al cappuccino p. Eugenio da Senigallia , che dal Convento dei Cappuccini di Leonessa informo' con una lettera il vescovo Quintarelli del suo prossimo arrivo in diocesi. Questo era il programma che il Visitatore si riproponeva di compiere: Eccellenza Reverendissima, Mi faccio un dovere di render noto all'Eccellenza Vostra Reverendisima che ad Sua Santita' sono stato destinato a Visitatore di cotesta illustre diocesi di Rieti. Prego l'Eccellenza Vostra a volermi assegnare un alloggio in citta', giacche', mi si dice, che il convento dei miei confratelli sia lontano e di non facile accesso. Non so il giorno preciso in cui potro' presentarmi all'Eccellenza Vostra per presentarle di persona i miei ossequi: giacche' mi rimane ancora da visitare il Vicariato di Leonessa appartenente alla diocesi Spoletina, e contemporaneamente, se non dispiace all'Eccellenza Vostra Reverendissima, ed a risparmio di spese e di viaggi, avrei intenzione di visitare le parrocchie vicine appartenenti alla diocesi reatina. Visitate queste, mi rechero' tosto ai piedi dell'Eccellenza Vostra: intanto mi mettero' in relazione con il Vicario Foraneo di questa citta'. Nella fiducia che cio' non dispiaccia all'Eccellenza Vostra Reverendissima mi prostro a baciarle divotamente il Sacro Anello recandomi a piacere di professarmi Dell'Eccellenza Vostra Reverendissima,
Leonessa Convento dei Cappuccini 7 ottobre 1904
Dev.mo Servitore Fr. Eugenio da Senigallia, ex Provinciale dei Minori Cappuccini
Le difficolta' di collegamento e comunicazione che inducono il Visitatore ad intraprendere il suo cammino secondo un criterio tanto informale quanto inusuale, sia pur dettato dal buonsenso ed imposto dalla necessita', determinano un episodio increscioso, di cui e'involontario protagonista il parroco di Santa Barbara in Agro don Leonardo Marinelli. Questi nega l'accesso al frate cappuccino, giunto inaspettatamente alla Chiesa Nuova, provocando il giudizio negativo e stizzito di fra Eugenio da Fossombrone. A monsignor Quintarelli non rimase che giustificare se' stesso ed il parroco don Marinelli nella stesura della Relatio ad limina del 1906. Nell'Archivio riservato del Vescovo ne resta la minuta, riportata da monsignor Giovanni Maceroni nel suo saggio Chiesa reatina e societa' civile dall'unita' d'Italia al fascismo . Cosi' il vescovo reatino affronta la questione: "(…) Portandosi al n° 2 con lode delle Chiese, del Capitolo, del Clero e del regime Parrocchiale di Rieti, si fa eccezione del Parroco di Santa Barbara in Agro, Don Leonardo Marinelli, del quale dicesi che non ha la testa a posto, che impedi' la Visita Apostolica, che fu cancellato dall'Albo dei Parroci urbani. In realta' vi fu un tempo, in cui diede per alcuni giorni qualche segno di allucinazione, ma fu cosa passeggera ed effetto di morbosa immaginaria persecuzione. Dopo quel breve eccesso trovossi e trovasi in piena salute: ed io sono abbastanza contento del suo operare. Il detto Parroco poco prima della Visita Apostolica venne truffato da alcuni che coll'abito di religiosi, con false carte munite di falsi sigilli eransi a lui presentati. Ora egli non avendo disgraziatamente ricevuto l'avviso della Sacra Visita, ne' conoscendo punto il Visitatore Apostolico, il quale nello scendere fa un'altra Forania e nel passare da quella parte penso' bene di visitare anche quella Chiesa, la quale non faceva parte per quel giorno del suo itinerario; credette nella sua fantasia di avere innanzi un'altra persona. Il Padre Eugenio con tutta buona grazia gli si offerse di mostrargli le carte della sua alta missione ecc. Non volle sentir niente. Malissimo fatto. Pero', rientrato poco dopo in se' stesso, si porto' subito la sera stessa in Rieti: e conosciute le cose e da me rimproverato a dovere, presentossi tutto umile al P. Eugenio, gli si getto' alla mia presenza in ginocchio domandandogli piu' volte perdono. Circa poi l'esclusione dall'albo del Collegio dei Parroci urbani che affermasi eseguita dal Priore di esso Collegio, col dovuto rispetto sono in grado di negare con piena scienza il fatto. Chi lo riferi' al Visitatore, disse il falso" .

CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE

Nel saggio La Cattedrale Basilica di Rieti con cenni storici sulle altre chiese della citta', pubblicato a Roma nel 1926, Francesco Palmegiani annotava, a proposito della chiesa di Santa Maria in Campo Reatino: "il vescovo Curoli aveva pensato istituire in questa chiesa una parrocchia rurale, ma, morto il Curoli, la chiesa parrocchiale fu costruita piu' distante sulla via che mena a Terni e per risparmiare poco materiale di muratura fu demolita l'antica chiesa di Campo reatino nel 1853 creandosi cosi' la Madonna della Chiesa nuova" . Traspare, in questa breve nota, il rammarico per la perdita di una testimonianza del passato, che non puo' non condividere chiunque coltivi la sensibilita' verso la conservazione e la custodia dei beni architettonici ed artistici ecclesiastici: eppure, nella traslazione del titolo dal vecchio al nuovo edificio, nell'atto materiale della demolizione finalizzata alla ricostruzione non possiamo non cogliere l'eco della parabola: "Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto" (Gv 12, 24). La storia della Chiesa Nuova si svolge, fin dall'atto della sua fondazione, nel segno di un rinnovamento necessario, anzi inevitabile: e'la chiesa che con il Crocifisso di San Domenico accoglie le reliquie - quasi i relitti - di un passato glorioso e negletto, la chiesa beneamata dai Vescovi reatini che si succedono dalla seconda meta' dell'Ottocento capace di aggregare la comunita' dei fedeli tanto da conferire ad essa una identita' che trova espressione nel toponimo che ne porta a sintesi i tratti religiosi e civili.

La parabola del chicco di grano esprime nella sua verita' eterna il senso di una vicenda che si riflette nella campagna ubertosa che si distende attorno alla chiesa di Santa Barbara in Agro, Santuario del Crocifisso: la croce, che nel chicco di grano trova simbolo e prefigurazione, ha fecondato la Chiesa universale, di cui la comunita' della Chiesa Nuova e'parte.